Pino Musi

Hybris · 2009

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Nella cultura classica il peccato di hybris si inquadrava in una sorta di insubordinazione dellʼuomo alla divinità, oggi rivela tutta lʼansia dellʼuomo contemporaneo nei confronti di un rischio, prima ventilato e poi pienamente palesato, di perdere titolarità nei confronti del proprio destino. In questo progetto Il tentativo è di “mettere in luce” il tempo sospeso della speranza, dove l'accadimento sviluppatosi subito prima lascia traccia tangibile di sé, ma non determina forzatamente nessuna progressione successiva. Resta congelato nel suo scenario. Il metodo di ripresa si è basato su una rigorosa progettualità: gli scatti sono stati effettuati in tre sale operatorie del sud Italia con una camera di grande formato posta su cavalletto, esattamente 5 minuti dopo il termine degli interventi chirurgici e l’uscita del paziente, e 10 minuti prima che gli infermieri rimettessero in ordine la sala per l’intervento successivo. La possibilità, in quel lasso di tempo, è stata di una sola inquadratura. La scelta del bianco/nero ha poi permesso di occultare ogni riconoscibilità evidente degli elementi di più facile spettacolarità (sangue, tracce del combattimento), evitando sottolineature visive. Tutto è cominciato alle 08:08 del 21 marzo per terminare alle 09:00 del 27 marzo 2009.
testo correlato:Post-factum / Stefania ZulianiAncora la sala operatoria in primo piano. Da Orlan - il blocco operatorio come atelier - a Musi che la esibisce come operating theatre, come teatralizzazione di un evento operativo compiuto. Il teatro senza attori, malati, medici e tecnici, presentato post-factum. Nella sua nudità, senza palpiti. I reperti, le scorie, i residui dell’azione, relitti che dicono di un combattimento, di uno stato di emergenza che il bianco e nero denuncia e disinnesca, svuotandolo di ogni emotività superficiale per dare peso e luce alle presenze che dicono di un assenza totalizzante e piena. Perché è il corpo, il corpo del paziente e i corpi dei medici, il protagonista assoluto quanto paradossale di queste immagini, un corpo che è sul confine tra l’organico e l’inorganico, un corpo senza organi, come lo dichiara, con crudeltà senza redenzione, Artaud in un testo, la lettera a Pierre Loeb, che è diventato un manifesto dell’arte postumana. “Perché la grande menzogna - scrive Artaud - è stata quella di ridurre l’uomo a un organismo - ingestione, assimilazione, incubazione, espulsione - creando un ordine di funzioni latenti che sfuggono al controllo della volontà deliberatrice, la volontà che decide di sé a ogni istante”. La volontà che decide ad ogni istante: una dichiarazione che rimanda alla hybris dell’homo creator del quale ha discusso Gunter Anders nel celebre L’uomo è antiquato, dove formula la diagnosi profetica del passaggio rivoluzionario dall’homo faber all’homo creator. Il superamento dell’umano, della fatalità dell’organico.

libro correlato:
_08:08 Operating Theatre


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